In ricordo del Pirata

IL 14 febbraio del 2004, a trentaquattro anni, moriva Marco Pantani: fu il tragico epilogo di una parabola discendente iniziata cinque anni prima, quando a Madonna di Campiglio, il “Pirata”, all’apice della sua carriera, venne fermato dall’antidoping. Da quella mattina del 5 giugno 1999, per il campione romagnolo, iniziò una serie di traversie che non gli diedero pace: la sospensione di quindici giorni, la scelta di non partecipare al Tour de France di quello stesso anno, la depressione e la solitudine, le cure in clinica, poche gare all’altezza della sua fama, fino ad arrivare a quella sera di San Valentino del 2004 in cui fu stroncato da un’overdose di cocaina e trovato morto in una stanza di un residence riminese. La storia di Pantani è proprio questa: uno dei più grandi ciclisti di sempre, uno scalatore eccezionale, travolto da eventi più grandi di lui, ma che non ne hanno offuscato il mito. Qua sotto, vi proponiamo il ricordo che scrisse ai tempi, il direttore Andrea Aloi, sulle pagine del Guerin Sportivo:

«NON CI sono modi migliori o peggiori di morire. Si muore, è una riga nera tirata e stop. Sempre soli, anche se qualcuno, come Pantani, se ne va più solo di altri, abbracciato da un deserto insieme voluto e subìto nel labirinto del disagio, del dolore della mente che spiana la volontà. Ma queste sono le parole di chi resta, segni minimi di compassione, povera cosa anche se preferibile ai pettegolezzi, alle sciocche chiamate di correo: non i magistrati hanno spinto Marco nel precipizio, non i commissari antidoping. C’è chi, disarcionato, si cura le ferite e poi si rimette in sella. È successo a tanti campioni. Pantani, appiedato bruscamente  nel ’99 all’apice del successo, non ha mai saputo ritoccare terra e di lì riprendere slancio, ha continuato a galoppare nel piccolo mondo parallelo della Fama, a riscuotere i crediti di amicizie e sorrisi che nessuno osava negargli. Si è dimenticato un giorno dietro l’altro di come si soffre pedalando, si è allenato a soffrire e basta, poi ha cercato scorciatoie artificiali per non patire più. Da solo. Eppure anche l’orgoglio ferito ha bisogno di onesti gregari: non ne ha chiamati al suo fianco o li ha cercati tardi la scorsa estate, quando si è chiuso in clinica per rimettere insieme i cocci. Non chiamiamolo eroe, proviamo a spendere un po’ di misura. E perfino “Pirata” sembra un timbro sbagliato, il ragazzo minuto che pestava i pedali sull’Alpe d’Huez era terribilmente vero e bello e compiuto nel tradurre ripetuta fatica in impresa. Non “rubava” nulla a nessuno, non depredava forzieri, tradiva le regole come tutti e primeggiava con virtù proprie. Con voglia sovrumana, anche di guarire (e oggi suona paradosso): chissà quanto ha pesato, quella tensione di nervi, nel dopo. Pantani, oppresso da un destino crudelmente piccolo, neppure questo piratesco, è stato un grande per quanto ha smosso e sollecitato – in un’epoca del ciclismo abbastanza banale e avara di limpidi campionissimi – la sete inestinguibile di forti e bei gesti sportivi, di epica, che è il calore delle nostre sere troppo uguali. Nonostante tutto il risaputo, lo scoperto e il non detto su performance a tappe che chiedono l’impossibile e l’ottengono con la chimica. A Madonna di Campiglio forse è stata l’invidia degli sconfitti a consegnarlo alle forche caudine dell’antidoping. È un dettaglio meschino da aggiungere a uno sport comprato e venduto che con la scomparsa di Marco Pantani è ancora un po’ meno legittimato moralmente a chiederci passione».

Giovanni Del Bianco
(articolo per il blog del Guerin Sportivo)

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